PROLOGO: Il mondo è di tipo terrestre, un ‘pianeta azzurro’ con una luna, alla giusta distanza dal suo sole per trovarsi nella fascia della vita. Il suo asse quasi non ha inclinazione, regalando così una temperatura mite quasi tutto l’anno. Per trovare della neve o del maltempo, bisogna andare verso le cime più alte. La vegetazione è ovunque un trionfo di varietà, a volte letale, ma sempre bellissima.

Il nome di questo mondo è Corelia. E gli è stato dato non dalla sua popolazione autoctona, ma da coloro che sono giunti ad abitarlo dopo innumerevoli peripezie.

‘Corelia’ è un termine antico. Stava ad indicare il nome del loro primo mondo, quando ancora era un paradiso vergine…e, soprattutto, esisteva.

Corelia vuole dire Kymellia.

 

 

MARVELIT presenta

WANDERERS

Episodio 1 - Breakthrough!

 

 

Città di Karata, Sede Amministrativa di Corelia

 

La città sorgeva lungo la più grande pianura del pianeta. Si trattava di una struttura interamente verticale, tesa non a glorificare l’elevazione dell’intelletto sopra la natura, bensì a proteggere quest’ultima dall’inevitabile invasione della vita ‘moderna’. Karata era un gioiello svettante, inondato dal sole, attraversato dalle trasparenti arterie che erano il sistema di trasporto.

Ogni aspetto della tecnologia Coreliana era teso a minimizzare l’impatto ambientale. La città, ed ogni altra città realizzata dai coloni, era un sistema chiuso ed autosufficiente -almeno finché fossero esistiti l’idrogeno, il sole e le forze geotermiche.

Il cuore si gonfiava di orgoglio, alla vista della realizzazione di un sogno -trasformare una conoscenza millenaria in qualcosa di utile per tutti…

 

Il Palazzo delle Scienze era la struttura centrale, la più imponente, di Karata. Tutta la città si irradiava dall’edificio.

E dentro l’edificio, il cuore di un anziano Coreliano era gonfio di paura…

Per l’ennesima volta -ormai aveva perso il conto- la creatura controllò gli schermi della sua posizione. Come ogni Coreliano DOC, assomigliava ad un equide antropomorfo: possedeva un muso delicato e lungo, una bella criniera -argentea per l’età, nel suo caso- ed una rada pelliccia bianca. Gli occhi erano due grandi pozze liquide che tradivano l’indole pacifica della sua specie. Possedeva tre dita per mano, e la sua postura era digitigrada.

Il Coreliano scosse nervosamente la soffice coda bene acconciata. Controllò ancora, digitando contemporaneamente con entrambe le mani.

Gli schermi, otto in tutto, mostravano un evento cosmico molto raro: lo scontro di due buchi neri supermassicci. La luce dei vicini corpi stellari era deformata dalla gravità degli orizzonti degli eventi; qualunque traccia di materia intorno ai mostri dello spazio era stata già inghiottita dai pozzi gravitazionali…

Il Coreliano controllò i dati un’ultima volta -era inutile prendersi in giro. Bisognava convocare la Grande Assemblea senza perdere un momento. Doveva mettere la sua gente in guardia…

Inserì i comandi per un backup compresso dei dati e si alzò…e proprio in quel momento, una fitta di dolore gli attraverso il petto!

Il Coreliano ricadde sulla sua poltrona. Il mondo intorno a lui si perse in una fitta nebbia di dolore. Non ora, maledizione, non ora!

Ma per quanto potesse essere indomita la sua volontà, il suo corpo era vecchio e debole, ed ora pagava lo scotto di sei notti insonni.

Si accorse a stento del sibilare della porta dietro di lui, seguito dal rumore di passi in corsa. “Padre!” gridò una voce femminile. Poi altri passi, poi l’odore inconfondibile dei paramedici. Poi il nulla…

 

“Padre!” disse la femmina, chinandosi su di lui. Aveva una folta criniera biondo platino, ed un corpo nel fiore degli anni. I paramedici la spostarono gentilmente, per poi procedere nel loro lavoro. Iniettarono un farmaco stabilizzante per il cuore, a cui seguì un’iniezione di naniti che, più lentamente, avrebbero riparato il danno; il biosegnalatore nel bracciale dell’anziano Coreliano aveva fatto il suo dovere diagnosticando con precisione il male.

Il paziente fu caricato su una barella levitante. “Starà bene, milady,” disse uno, che per consuetudine aveva la criniera completamente rasata. “Due giorni di riposo e tornerà come nuovo.”

Lei annuì -ormai era quasi una routine. Da cinque mesi, papà era come posseduto, lavorava al terminale del telescopio spaziale come se ne andasse della vita.

La barella uscì per prima dalla stanza, seguita dai paramedici. La porta si chiuse.

Rimasta sola, la femmina osservò i monitor. Il fenomeno era giunto al suo apice, e lei represse un brivido. Si trattava di qualcosa di così lontano, eppure le faceva venire in mente le favole sul Shoka, il predone delle ombre che tormentava la fantasia di ogni puledrino…

Il mostro pronto a divorarli tutti.

 

Sede del Comando Militare di Corelia

 

Il velivolo, un’elegante e sofisticata evoluzione di un ornitottero, planò sulle sue ali dalle piume metalliche sulla piattaforma in cima all’edificio. Con uno sbuffo di vapore, le ali rientrarono nei loro alloggiamenti, mentre le zampe si protendevano dal ventre per stabilizzare l’apparecchio.

Un portello si aprì, trasformandosi in scaletta. Poco dopo, venne fuori un Coreliano in uniforme blu con le maniche bianche. Anche quando sorrideva, come ora, i suoi occhi erano attraversati da una luce dura; i Coreliani sapevano essere anche grandi combattenti, se le circostanze lo richiedevano, e gente come il Comandante Kyrin coltivava il temperamento guerriero. Anche se i Coreliani avevano fatto giuramento di pace e di rispetto della natura, non potevano ignorare che il cosmo poteva mostrarsi ostile…

Una femmina dalla criniera nera accolse Kyrin. I due si strofinarono affettuosamente il muso in saluto, stringendosi appena l’un l’altra.

“È stato un buon viaggio, marito?” chiese la femmina.

Lui annuì. “La politica della nostra Assemblea funziona, almeno per questa generazione. Nessun centro urbano soffre manie espansionistiche o ipertecnologiste. Sono lieto di riferire,” aggiunse con finta solennità, “che la nostra gente ha imparato dai suoi errori.”

La coppia si diresse verso il proprio veicolo in attesa su una piattaforma. “Cara, Yarea,” disse Kyrin. “Sono un guerriero e non vorrei essere niente altro…ma spero proprio che i nostri figli ed i figli di Corelia non abbiano mai a pensare che meritino qualcosa di meglio di un mondo ricco e generoso.”

Lei scosse la testa. “Non succederà. Abbiamo conservato ogni possibile dato sulla catastrofe di Kymellia I, delle conseguenze dello sviluppo tecnologico incontrollato, dell’ambizione di coloro che hanno preferito rimanere indietro… Non permetteremo che i giovani dimentichino, e loro a loro volta trasmetteranno la lezione…Hm?” Un ombra passò sopra di loro, una corrente d’aria arruffò le loro criniere. Marito e moglie sollevarono insieme lo sguardo al cielo.

Un ornitottero sfrecciava a bassa quota fra le cime degli edifici. Il pilota era bravo! Riusciva a mantenersi sull’orlo di una collisione spettacolare, spaventando gli spettatori, ma prodigandosi in manovre eclettiche che facevano sembrare l’apparecchio una foglia al vento.

“Fammi indovinare,” disse Yarea “Hai promosso Tomeko al rango di capopilota?”

Kyrin levò gli occhi al cielo. “È giovane, ma scalcia come un intero branco. Ed è sicuramente il pilota più promettente che abbia mai visto.”

“Su questo ci credo,” disse lei, seguendo quelle acrobazie che sembravano sfidare le stesse leggi dell’aerodinamica.

 

Corelia era un mondo con molti segreti. E, nonostante le avanzate tecnologie dei coloni, ne restavano molti ancora da scoprire.

Uno riguardava la fauna nativa: senza alcuna interruzione drammatica ad impedirne l’evoluzione, gli antichi rettili avevano raggiunto uno stadio…interessante. C’erano tracce fossili dei giganti, ma i più grandi non superavano i tre metri di altezza. La pelle a scaglie era coperta di una rada peluria, e non pochi allattavano i pulcini.

Come mai l’intelligenza non era comparsa? Non che fosse una tappa obbligata, ma alcuni fossili mostravano chiaramente un’evoluzione verso quelle caratteristiche fisiche associate ad un intelletto sofisticato -postura, volume della scatola craniale, prensilità…

Il Coreliano di nome Ydrai, pelliccia bianca e criniera grigia tagliata a spazzola, si era improvvisato speleologo, alla ricerca di indizi verso una soluzione. Con indosso un’uniforme piena di tasche di tutte le dimensioni, e una leggera armatura sotto il costume, stava calandosi nelle profondità di una grotta grazie a sospensori anti-G alla cintura.

Accanto a lui, illuminando a giorno l’ambiente, fluttuava un Coreliano la cui figura era interamente composta di plasma infuocato.

“Vorrei che anche Embe e Kym fossero qui,” disse Ydrai, sondando l’ambiente attraverso i suoi ‘occhiali’. L’unica lente proiettava sulla sua retina le informazioni raccolte a tutto tondo dai sensori sparsi su tutto il costume. “Le loro capacità ci farebbero risparmiare giorni di lavoro.”

“Come me, Embe crede che la Matriarca non debba essere distolta dalle sue meditazioni e dalla ricerca di armonia. E lui, in quanto suo marito, sente anche il dovere di proteggerla.” Non aggiunse ‘come dovremmo noi’, ma il suo tono di voce fu abbastanza chiaro sulle parole non dette.

Ydrai disse, “Nel nostro caso, prima scopriamo quanto più possibile sul mondo che ci circonda, prima potremo evitarne le sorprese più sgradevoli. Siamo arrivati qui da poco, Oninjay.”

Il puledro fiammeggiante sospirò. “Sai che sono d’accordo con te, fratello, o non ti starei dietro. Potevamo pure portarci dietro una squadra, invece di fare da soli.”

“In quanto membri della Forza Quattro, cioè dei più importanti guerrieri della nostra gente, Jay, dovremmo essere in grado di cavarcela da soli. E dovremmo sempre essere tutti e quattro, sul campo.”

“Capirai! Chi credi che incontreremo, quaggiù? Un deforme signore delle tenebre che vuole vendicarsi dell’invasione del suo mondo?”

“Non lo escludo,” fu la distratta risposta.

“A proposito,” Firemane si guardò intorno. “Perché questa caverna?”

“Le tracce fossili parlano di una piccola migrazione quaggiù. E credo sia solo legittimo essere curiosi sul perché una specie presumibilmente diurna abbia deciso di fuggire nel sottosuolo.”

“Perché volevano un po’ di fresco?”

Teamleader si fece cupo. “O perché l’unica fauna intelligente aveva capito che qualcosa sulla superficie era letale. Ci sono cumuli di fossili di varie specie, come se qualcosa avesse spinto gli animali ad una fuga disordinata. E l’assenza di residui legati ad attività vulcanica, o da radiazioni cosmiche, mi preoccupa.”

“D’accordo, d’accordo!” fece Firemane. “Scusa per avertelo chiesto. Vuoi che chiami gli altri?”

“Riprovaci.”

 

La penisola si estendeva come una sorta di uncino. La sua particolare conformazione, unita alla barriera corallina cresciuta come una gabbia dall’estremità dell’uncino fino alla terraferma, creava un rifugio naturale per decine di specie ittiche, ricco di nutrimento. La vita prosperava in tale varietà ed abbondanza che l’acqua stessa sembrava brillarne.

La Matriarca sedeva con le gambe incrociate sul pelo dell’acqua, una figura di delicata e matura femminilità, dal pelo candido come la neve e la criniera grande e folta. Teneva gli occhi chiusi, persa nell’estasi del contatto con la biosfera.

All’inizio della sua carriera come Ghostmare, Kym era stata riluttante ad assumersi la responsabilità di combattere, foss’anche per la sua gente. All’inizio della sua carriera, lei poteva sfasare sé stessa ed altri oggetti.

Una serie di circostanze aveva potenziato i suoi poteri, fino a quando non era stata in grado di sfasare una numerosa fetta della popolazione Kymelliana, per portarli via dalla corruzione che i loro simili stavano abbracciando.

Era stato un viaggio lungo, ed alla fine erano giunti qui, su Corelia, dove ricominciare.

Col tempo, Kym aveva imparato che poteva estendere la sua concentrazione non solo per sfasare, ma anche per abbracciare l’essenza stessa di ciò che mentalmente ‘toccava’. Oggi, la Matriarca poteva diventare una sola cosa con l’ambiente che la circondava.

Le ‘sedute’ come quelle di oggi erano mirate a sviluppare tale abilità fino al raggiungimento della ‘fusione’ con l’intero ecosistema planetario. Avrebbe proceduto con pazienza, passo dopo passo, conoscendo l’ambiente un pezzo alla volta…

 

Ad una distanza sufficiente a permetterle di operare in pace, ma abbastanza vicino da correre in suo soccorso se necessario, stava Embe. Il quarto membro del più famoso quartetto Coreliano, nome in codice Thunderhoof, era uno stallone dal pelo bianco e la criniera rossa a spazzola. Era abbastanza forte da spezzare l’acciaio, e qualunque nemico ci avrebbe pensato su un paio di volte prima di metterglisi contro.

Ma a suo modo, Embe era un individuo ancora più mite della stessa Kym. Aveva accettato di farsi potenziare per spirito di dovere, ma aveva colto al volo l’occasione di abbracciare la pace ed il grande esodo. Ora il suo fuoco interiore ardeva principalmente per la sua amata giumenta, per la quale era pronto a dare la vita senza il minimo ripensamento.

Ogni tanto, Embe si scopriva a riflettere sulla sua fortuna: dichiararsi gli era costato uno sforzo fisico, era convinto che una bellezza così delicata non meritasse un bruto come lui. Praticamente, ci erano volute le provocazioni di quel bellimbusto di Oninjay per spingerlo a compiere il gran passo… E scoprire che lei aveva sempre atteso che lui facesse la sua mossa…be’, non si era mai sentito così stupido!

Arrossì sotto la pelliccia al ricordo dei suoi balbettamenti, nel tentativo di ricordare una qualunque frase ad effetto per impressionarla…poi lei gli aveva preso la mano, e al diavolo tutte le frasi ad effetto!

Embe sorrise…e fu interrotto dal segnale del comunicatore da polso. Gli scappò una bestemmia a denti stretti, e si affrettò a rispondere. “Parla Thunderhoof.” Con la coda dell’occhio, vide che anche Kym era stata distratta e stava rispondendo a sua volta.

 

“Forza Quattro,” disse la voce del Comandante Kyrin. “Siete immediatamente convocati presso la Grande Assemblea. Priorità Kodo. Qui Kyrin, chiudo.”

Priorità Kodo: nel codice di pericolo, che ancora ricordava il grado di pericolosità dei predatori del vecchio Kymellia, era l’equivalente dell’Allarme Rosso. Non era un ordine che si potesse discutere.

Firemane e Teamleader si scambiarono un’occhiata, per poi annuire.

 

La Grande Assemblea.

L’organismo regolatore dei Coreliani, rispolverato dal passato della specie. Due rappresentanti per ogni città, un maschio ed una femmina fertili tanto istruiti quanto fisicamente all’apice, simboli dei capobranco riconosciuti.

Il nome era, nei piani, destinato a restare simbolico, in quanto l’Assemblea era composta di quaranta elementi.

E tutti stavano facendo del loro meglio per restare calmi e controllati.

Impresa non facile, di fronte a quello che l’anziano scienziato stava esponendo ai suoi illustri superiori.

“Signore e signori, vi assicuro che quanto sto dicendo è semplicemente, per quanto sgradevole, la verità.” Lo Scienziato, avvolto nella sua uniforme azzurra, indicava con un puntatore le immagini del cataclisma cosmico. “Dobbiamo prepararci a lasciare Corelia…sempre nella fortunata ipotesi che riusciremo a costruire una flotta a tale scopo.”

L’Assemblea fu percorsa da una fitta serie di mormorii. Un delegato si alzò in piedi. Indossava la tunica che andava da una spalla fino alle ginocchia, tenuta insieme da un fregio dorato di una stella circondata da una corona d’erba. “Professor Birma, c’è una minima possibilità che…Shoka sia meno grave di quanto lei abbia stimato? Lei stesso ha ammesso di non avere mai osservato direttamente…”

Lo scienziato, seduto su una sedia ad anti-G in ossequio al suo corpo stanco, scosse educatamente la testa. “È vero, signor Delegato: Shoka non ha precedenti nella nostra lunga storia scientifica, ma i modelli matematici sono corretti. E quanto finora osservato non lascia spazio a dubbi: la collisione dei due buchi neri supermassicci ha generato un fronte d’onda gravitazionale. Il fronte ci raggiungerà entro ventotto ore a partire da ora. Il sistema solare sarà distrutto, ogni pianeta strappato via dalla sua orbita. Se saremo fortunati, non andremo in collisione con gli altri mondi, ma Corelia morirà.

“Senza il sole a riscaldarci, l’atmosfera precipiterà interamente al suolo sotto forma di neve. Tutta l’acqua libera ghiaccerà completamente. Il nostro mondo sarà completamente coperto da uno strato di ghiaccio; l’albedo a quel punto sarà abbastanza alta da impedirne lo scioglimento ad opera di un’altra fonte solare…a meno di non volercisi trovare veramente molto vicini.”

“Possiamo sciogliere noi stessi i ghiacci?” chiese un delegato. Era una domanda tutt’altro che retorica o disperata, dato il grado di avanzamento della loro tecnologia.

 

Seduto nel settore riservato al suo gruppo ed alle forze militari, Ydrai vide Kym chinare la testa, sconsolata. Non le era mai parsa così bella, e il suo cuore ancora vibrava per lei…ma lei, per quanto lo stimasse come capo del gruppo e come amico, non riusciva a superare la propria diffidenza per la tecnologia che lui invece abbracciava con passione. E anche se suo fratello Jay era un bel puledro, era ancora troppo impetuoso per essere un compagno fisso affidabile…

“Possiamo farlo,” stava dicendo Birma. “Ma dovremo prima trovare un rifugio adatto alla costruzione dei macchinari necessari. E trattandosi di tecnologia nucleare, dobbiamo essere sicuri di disporre del posto giusto per il lavoro.”

“Quello lo conosciamo,” disse Kyrin, alzandosi in piedi. Il suo corpo vibrava di eccitazione: era nel suo elemento. “Abbiamo realizzato dei rifugi d’emergenza in caso di attacco dal cielo. Possiamo organizzare un’evacuazione immediata per salvare quanta più gente possibile. Il cibo ed il calore non ci mancheranno, oltre alle comodità indispensabili ed ai mezzi per difenderci. È tutto pronto.”

Uno dopo l’altro, i Delegati annuirono. “Comandante Kyrin, avete una lista degli individui e relative famiglie che ritenete indispensabile mettere in salvo?”

Il militare annuì. “Aggiornata ad oggi, signor Delegato. Devo avvertirvi subito: molti di voi non potranno venire.”

Una femmina si alzò in piedi. “Salvate la gente nella lista. Meglio che ci siano almeno dei sopravvissuti selezionati con cura piuttosto che rischiare l’estinzione.”

L’Assemblea fu sciolta.

 

La Matriarca si diresse verso Birma. “Professore?”

Lui chinò la testa in saluto. “Dimmi tutto.”

“Quanto tempo occorrerà per realizzare i dispositivi per sciogliere il ghiaccio?”

Lui scosse mestamente la testa. “Partendo senza alcun preavviso, senza altro che i naniti e qualche pezzo di ciò che mi serve...anni, mia cara.” Le strofinò il muso con una mano. “Mi dispiace, vorrei si potesse fare di meglio.”

“Forse possiamo,” disse lei. E questo attirò l’attenzione dell’anziano, nonché del capo militare che si fermò sul punto di attraversare la porta.

Lo stallone si avvicinò ai due. “C’è forse qualcosa di cui dovrei essere messo al corrente, soldato?”

Lei ebbe una breve contrazione del muso a quel termine, poi, “Non volevo mancarle di rispetto, signore…ne’ desideravo instillare false speranze nell’Assemblea parlando avventatamente.”

“Spiegati,” dissero Kyrin e Birma all’unisono.

Lei annuì. “Se ci fosse un modo per estendere il mio campo di sfasamento, potrei salvare l’intero pianeta dall’inverno eterno. Potrei ‘staccare la spina’ ad intervalli regolari, per permettervi di lavorare a quello che vi serve per fermare i ghiacci…o qualunque altra cosa…”

Birma prese a rifletterci su seriamente. Kyrin annuì e disse, “Qualunque cosa decidiate, fatemelo sapere al più presto. Ho un’evacuazione da dirigere,” e si diresse di corsa verso l’uscita. E così facendo, si perse l’espressione buia di una femmina dal pelo dorato e la criniera completamente rasata.

“Sconsiglio assolutamente una simile idea,” disse la femmina, che indossava un’uniforme tutta bianca con braccia rosse.

Kym e Birma, e gli altri della Forza Quattro la fissarono con curiosità. “E come mai, Dottoressa Lesha?” fece Oninjay.

“Una combinazione dello sforzo fisico e mentale richiesto e le eccezionali condizioni ambientali. Quando la Matriarca riuscì a sfasare due milioni di Kymelliani, dovette lavorare su una massa molto più bassa e meno estesa di un intero pianeta. E non sarà in grado di giocare con un simile sforzo ad intervalli regolari come si prefigge.”

“Hai così poca fede in lei?” Thunderhoof aggiunse uno sbuffo enfatico dalle narici.

“Il capo del Direttorato di Medicina ha ragione,” intervenne Birma. “Mi dispiace, Matriarca, ma un simile compito sarebbe troppo anche per te. Tu ed i tuoi compagni potrete essere più di aiuto per difenderci durante il lungo inverno.” Le diede una strofinata di muso sul braccio. “Mi dispiace solo di non avere saputo capire prima che cosa ci aspettava…”

Lei ricambiò il gesto strofinandosi leggermente contro la criniera. “Recriminare non ci servirà,” disse, ma avrebbe voluto nitrire a lungo la sua disperazione. Tutta quella fatica per nulla! Persino gli antichi dei malvagi non avrebbero potuto essere così crudeli verso i mortali..!

 

Città di Karanera

 

Il segnale di evacuazione era giunto come un fulmine a ciel sereno. Ogni attività si era interrotta, la città aveva smesso di respirare, mentre un messaggio registrato prima declamava il pericolo imminente e poi invitava una serie di nomi associati a numeri a dirigersi verso il rifugio sotterraneo. A quel punto, il messaggio riprese e non avrebbe smesso fino alla fine.

 

Questo giovane stallone, vestito solo di un perizoma, intento al lavoro nei campi, alla periferia della città, si fermò nell’atto di calare la zappa a terra.

Il segnale di emergenza? Voltò la testa verso la città; si terse la fronte con un braccio, osservando cupo l’orizzonte di torri. Il segnale gli suonava sgradito come il lamento di un titano ferito.

Il vento gli scompigliò la criniera, nera come il resto del suo corpo. Sbuffò a più riprese, istintivamente, poi, finalmente lasciò andare la zappa e si diresse verso il mucchio dei suoi vestiti, al confine del suo appezzamento. Col comunicatore, avrebbe saputo cosa c’era che non andava…

Stava per prendere gli abiti, quando un’ombra passò su di lui, seguita dall’inconfondibile suono di un ornitottero.

Il velivolo atterrò senza tanti complimenti nel mezzo del campo. Lo stallone nero sgranò gli occhi a quella oscena violazione del suo spazio verde! Dimentico degli abiti, fece per andare verso l’intruso, deciso se necessario a smantellargli a calci la «impronunciabile» macchina…quando dal portello emerse “Tomeko?”

Non avrebbero potuto essere più diversi: dove l’agricoltore era nero e lucido, il neopromosso capopilota era rossiccio, con una stella bianca sulla fronte. L’agricoltore era un fascio di muscoli modellato ed indurito dal duro lavoro, l’altro era quasi esile a confronto. Ma negli occhi di entrambi brillava l’ostinazione di famiglia.

“Mi dispiace per il tuo campo, Toroki, ma è l’ultimo dei nostri problemi, adesso,” disse Tomeko senza neppure accennare un saluto formale. Prese il fratello per le spalle. “Sapevo che ti avrei trovato senza un vestito addosso, per questo sono venuto.” Spiegò rapidamente cosa stava per succedere, poi aggiunse, “Sei uno dei selezionati per scendere nei rifugi: la tua esperienza con l’agricoltura è indispensabile. Dobbiamo muoverci, adesso!”

Tomeko era un militare, era abituato a gestire una situazione dinamica. Toroki era un individuo abituato ai ritmi del suo campo… Questo sconvolgimento, così improvviso, così…impensabile, gli rivoltò le viscere, gli sciolse i pensieri in una massa incoerente. “I semi…gli attrezzi…devo portarli con me…”

Nonostante sotto molti aspetti ancora fossero in forte competizione, Tomeko capiva benissimo cosa stava passando per la testa dell’altro. Lo abbracciò forte. “Troverai tutto quello che ti serve, nei rifugi.” Strofinò la propria guancia contro quella dell’altro. “Ru’kna li Kym’la te. Torà vo-meele,” gli sussurrò nell’orecchio. ‘Ecco la malasorte dei Kymelliani. Corri ai nuovi pascoli.’

Sei li-itotomi,” fu la risposta, sussurrata con voce tremante. ‘Lì saremo felici.’ Quante volte la loro gente aveva ricominciato sotto queste parole…e quante volte ancora avrebbero dovuto?

Toroki si staccò dal fratello. “Manna e Ieva si trovano in città. Loro..?”

Tomeko annuì. “Le famiglie non vanno separate. Se sono in città, i militari le staranno aiutando a raggiungere i rifugi.”

Toroki annuì. Andò a prendere i suoi vestiti, poi seguì il fratello all’ornitottero. Prima di salire, si fermò e si voltò a guardare un’ultima volta le torri svettanti. Il cuore gli pianse.

 

“Non possono, non possono farlo!”

Il tasso di criminalità in tutte le città di Corelia era pressoché nullo; il benessere diffuso, unito alla cultura pacifica dei coloni, rendeva vano ogni tentativo di accaparrarsi potere o ricchezze che non avrebbero comunque giovato.

Naturalmente, c’erano delle eccezioni: non importava quanto raffinata fosse una cultura, si trattava sempre di esseri viventi, ed alcuni di loro, alla nascita, possedevano dei…difetti. Minuscole variazioni imprevedibili, e soprattutto non corrette all’origine in nome del rispetto dell’individualità. Dove su Kymellia I l’eugenetica era diventata una regola, su Corelia l’individuo ‘imperfetto’ veniva monitorato e seguito, accudito, ma lasciato libero di vivere.

Era il caso dello stallone di nome Butazi, un colosso baio dai balzani neri e la criniera nera fluente. Si muoveva avanti e indietro nella sua stanza, dentro l’istituto medico che era la sua casa. Il suo ‘difetto’? Era pervaso da una furia inestinguibile: viveva in uno stato di paranoia permanente, vedeva nemici ovunque ed era pronto a combattere chiunque solo gli rivolgesse la parola nel tono sbagliato -ed era lui a decidere quando fosse sbagliato!

Insomma, Butazi era pazzo. Ma era anche un pazzo lucido, un genio sotto certi aspetti. La sua cultura, coltivata durante le interminabili giornate all’istituto, coltivata perché ogni professione gli era stata negata una prova dopo l’altra, comprendeva una vasta serie di argomenti.

Indipendentemente dal suo stato di alterazione, si riteneva troppo importante per potere accettare il fato che stava per giungere sulla città. Qualunque fosse la sua natura.

“Non possono farlo.” La sua voce era melliflua, un contrasto curioso per una creatura della sua stazza. I suoi stessi movimenti avevano qualcosa del predatore pronto a saltare.

Dalla porta non venivano suoni, la stanza era isolata. Il monitor era spento.

Ma non il comunicatore nascosto sotto l’uniforme. Ci era voluto il suo tempo, per assemblarlo componente per componente, ma il tempo c’era. Era stata la sua sola ancora con il mondo esterno…cioè con quello dei canali ‘segreti’, il mondo delle notizie che non raggiungevano il pubblico.

Butazi aveva imparato cose molto interessanti, aveva raccolto informazioni che la sua memoria aveva conservato senza alcuno spreco.

Ed era giunto il momento di utilizzarle! Non poteva essere, ironicamente, un’occasione migliore: le autorità non si sarebbero curate di lui, non dopo quello che stava per succedere…

E loro non sapevano che lui sapeva!

 

Separazione: -10 ore, 22 minuti, 40 secondi

 

“Le sequenze di disattivazione sono innescate,” disse un maschio dal pelo nero e la criniera bianca. “Entro due ore, non un reattore a fusione sarà attivo. Gli inneschi a fissione saranno resi innocui entro sette ore. Gli impianti industriali di tutto il mondo stanno lavorando con l’energia degli accumulatori.”

La femmina che seguiva lo sviluppo industriale di Corelia annuì gravemente. Il Professor Birma aveva previsto una serie di scosse sismiche molto intense, non appena l’onda gravitazionale fosse arrivata. I serbatoi di stoccaggio chimico potevano pure rompersi, tanto l’ecosistema era condannato comunque, e non ce n’erano certo abbastanza per aggiungere una catastrofe globale a quella che li aspettava.

Le barre di uranio e le scorie atomiche degli iniettori dei reattori a fusione erano un altro discorso: se il materiale radioattivo si fosse sparso, sarebbe rimasto lì ad aspettarli per molto, molto tempo...

“Come procedono i convogli verso i rifugi?” Birma aveva posto l’accento sulla necessità di portare quanti più naniti possibile verso i rifugi, senza economizzare. Oltre ai naniti, naturalmente, ci voleva l’uranio per le centrali, le basi genetiche per i serbatoi idroponici… Nel complesso, si trattava di un’operazione massiccia, senza precedenti nella breve storia della civiltà Coreliana. Era un vero peccato, non potersene vantare!

Il maschio diede una lettura al suo schermo. “Siamo al 50% della richiesta. I volontari stanno facendosi in quattro per assicurare che tutto vada il più speditamente possibile.” Lui guardò con tristezza il suo superiore. Lui sarebbe andato nei rifugi, lei sarebbe rimasta indietro; tutti gli anziani sarebbero rimasti indietro…

La femmina sorrise. “Saprai sostituirmi degnamente, Kofi. Non mi aspetto di meno, da te.”

Lui chinò brevemente la testa.

 

Lo stallone si chiamava Ralan. Era l’assistente personale e studente della Dottoressa Lesha, la seguiva come un’ombra e fungeva da interfaccia fra lei e la burocrazia. Dopo sei anni spesi fianco a fianco con il suo superiore, sapeva bene come interpretare la sua mimica facciale.

Lesha era seduta alla sua posizione, intenta su una serie di monitor. Stava seguendo il processo di carico dei farmaci e degli strumenti medici; fortunatamente, i rifugi erano già attrezzati con lo stretto necessario…ma non bastava. Non per un periodo di tempo indefinito. Anche lui capiva che era come infilarsi in un’astronave con niente altro che un panino per un viaggio di giorni-luce. Educatamente, ma fermamente, la femmina aveva chiesto uno sforzo massiccio per produrre quanti più antidepressivi possibile usando ogni secondo disponibile.

I Coreliani avevano bisogno di sole, spazi aperti, un ambiente ospitale. Le simulazioni olografiche dei rifugi sarebbero andate bene solo fino a un certo punto, adattarsi alla vita di prigione avrebbe richiesto tempo…

Serviva ancora più materiale per le sezioni traumatologiche. I peggiori istinti della sua gente sarebbero inevitabilmente diventati parte integrante del comportamento quotidiano, con conseguente aumento del crimine…

 

Separazione: -09 ore, 10 minuti, 15 secondi

 

“Comandante Kyrin.”

Lo stallone staccò gli occhi dai monitor. “Dimmi, Capitano Folon.”

Il maschio rosso si fermò sull’attenti di fronte al suo superiore. “Disordini segnalati nelle città di Kalen, Kamok e Kastor. Folle inferocite hanno preso possesso delle rampe di lancio spaziali; i vettori stanno per partire. Non riusciamo a…”

Kyrin scosse la testa, interrompendolo. “Lasciamoli andare.”

“Signore..?”

“Lasciamo loro la possibilità di una Torii.” Un’’ultima corsa’, un’ultima illusione di libertà. I vettori erano adibiti all’esplorazione del sistema solare, non ai viaggi interstellari. L’ultima dimora dei Coreliani disperati sarebbe stata lo spazio…

Almeno, l’evacuazione procedeva bene. C’erano stati pochissimi tentativi di violare il cordone protettivo fra i prescelti ed i rifugi. Avevano avuto la meglio il fatalismo ed il desiderio che la specie sopravvivesse…

Improvvisamente, tutta l’attività della sala comando subì una battuta d’arresto, mentre una luce soffusa passava attraverso le pareti di cristallo.

L’ultima alba di Corelia era sorta. Il sole immutabile lanciò una sciabola infuocata e bellissima, filtrata dai cristalli. L’orizzonte delle montagne era un tappeto verde dalle cime candide. Il sole accese le cime come tante torce. Stormi di uccelli volarono nel cielo, beatamente ignari. Non c’era traffico nelle arterie sospese della città, chi rimaneva indietro stava semplicemente aspettando con i suoi cari o con un amico, conosciuto od improvvisato che fosse…

Il lavoro riprese con rinnovata energia.

Kyrin maledisse il giorno in cui si era deciso di non costruire una flotta interstellare, per lasciarsi indietro le ambizioni di colonizzazione. Se solo si fosse potuta mettere in salvo qualche coppia fertile!

 

Toroki osservò la febbrile attività nelle strade. L’illuminazione era diffusa e costante in ogni angolo, i filtri atmosferici garantivano aria buona…per ora.

C’erano giardini da coltivare, per assicurare un supporto non meccanico di aria, e Toroki era stato felice di potersi occupare della supervisione. Si trattava di piante in ottima forma e dalle foglie abbondanti.

Lo stallone nero non aveva avuto un attimo di riposo da quando era sceso. Ogni suo pensiero era rivolto ad assicurarsi che la vegetazione di questo e di tutti gli altri rifugi sopravvivesse intatta durante la glaciale odissea.

“Mie care,” sussurrò ad un albero, accarezzandolo affettuosamente. “Ci aspettano giorni difficili, ma non sarete lasciate sole. Restituiteci con generosità quello che noi vi offriremo.”

 

Separazione: - 04 ore, 08 minuti, 55 secondi

 

“Lo stoccaggio dei farmaci e delle attrezzature è completo, Dottoressa,” disse Ralan.

Lesha tamburellò sulla superficie della sua scrivania. “Allora possiamo cominciare a pregare,” disse, con quel suo fare distaccato. Aveva il ghiaccio nelle vene, e mai come nel suo caso si applicava la massima ‘il buon medico deve essere inclemente’. Ogni volta che si era ammalata, era stata la prima a tirarsi indietro, lasciando al suo apprendista il compito di mandare avanti la baracca. Fortunatamente, lei si ammalava davvero di rado! “Ci sono feriti, finora?”

“Um, solo sulla superficie, Dottoressa.”

Lei tacque, fissando il suo sguardo verso il soffitto.

 

Separazione: - 02 ore, 51 minuti, 01 secondi.

 

Il cielo azzurro nascondeva pietosamente l’orrore che avanzava.

Sugli schermi, invece, il fronte d’onda riempiva lo schermo. Il cielo stellato era un caleidoscopio impazzito, era come guardare attraverso una lente distorcente cosmica.

Per Birma, era bellissimo. Ogni bit di informazione era trasmesso in tempo reale ai centri scientifici nei rifugi; Corelia doveva imparare e ricordare anche questa tragedia. Il cosmo non era un’entità benevola ed immutabile, no! Era una bestia camaleontica, imprevedibile, affamata.

A lui dispiaceva davvero di avere fatto quello che era stato fatto, ma ormai non aveva più senso rimuginarci: a riparare alla sua stupidità -no, non stupidità: viltà, viltà e niente altro!- ci avrebbero pensato i giovani come sua figlia.

“Shoka,” disse allo schermo piatto, accarezzandolo. “Puoi averci lacerato i fianchi, azzannato le zampe…ma questa volta continueremo a correre. Alla fine, non ci avrai fatto così tanto male.”

 

Separazione: - 01 ora, 10 minuti, 30 secondi

 

“Comandante Kyrin?”

Lo stallone sospirò mentalmente. “Dimmi, Capitano Folon.”

“Rapporto finale sull’evacuazione, signore: centoventi unità mancano all’appello. Si sono suicidati, signore.”

Kyrin annuì: non era sorprendente, del resto. Tutta la disciplina del mondo non poteva impedire la depressione. Per quelle persone, vivere sotto milioni di tonnellate di roccia doveva essere una condanna peggiore della morte.

Una parte cinica di lui calcolò che si trattava di centoventi pesi in meno sui sistemi vitali… “Chiedo scusa, Capitano. Cosa hai appena detto?”

Il sottoposto esitò. “Uh, signore…non abbiamo notizie di sua moglie.”

“Yarea..?” le sue orecchie si appiattirono, le narici fremettero. “Yarea non è qui?”

“Ha staccato il suo segnalatore, e nessuno l’ha vista.”

Sotto la sua pelliccia, Kyrin era terreo. Le gambe gli tremarono, i pugni si contrassero meccanicamente.

Yarea. Yarea, la sua dolcissima compagna innamorata del loro mondo.

Ne era sicuro, non si era suicidata.

Era rimasta fuori. Ad attendere la fine, guardando il mostro negli occhi.

“Le porte sono chiuse?” chiese con voce tremante, già conoscendo la risposta.

“La sequenza di chiusura è quasi ultimata.”

Procedura automatica. Cinque porte di superlega, spesse ognuna tre metri, ammortizzate per assorbire ognuna il massimo dell’impatto possibile. Nessuno poteva entrare, nessuno poteva uscire.

Poteva ordinare ad un ornitottero di levarsi in volo…ma il solo lancio avrebbe richiesto mezz’ora.

“Comandante!” disse la voce di uno degli operatori. Il tono allarmato riportò Kyrin al suo senso del dovere. “Dimmi, operatore.”

“È Ghostmare, signore! Il suo segnale…si trova fuori. Al palazzo delle Scienze.”

Cosa?! Perché si è diretta lì?”

“Secondo il diario delle comunicazioni, ha appena ricevuto una chiamata dal Professor Birma,” disse un altro operatore.

Kyrin batté il pugno sul tavolo. Stava andando tutto a rotoli, se si poteva dire in una situazione già impregnata di follia! L’ultima cosa che poteva permettersi era di perdere anche un membro della Forza Quattro. “Chiamatela su tutte le frequenze!”

 

Separazione: -00 ore, 45 minuti, 21 secondi

 

Kym, vestita ora della sua familiare uniforme ocra e nero del suo gruppo, apparve come un fantasma nel laboratorio. Capì immediatamente la ragione per cui l’anziano astrofisico l’aveva chiamata.

Triza, la figlia del professore, era in piedi davanti al padre, in una posa stolida. “Non intendo abbandonarti, padre. Noi staremo insieme, in un modo o nell’altro. Deve esserci un posto anche per…” Si voltò al suono dei passi della giumenta. “Matriarca,” disse con timore reverenziale. “Ti prego, aiutaci, devi…”

“Portala via,” la interruppe Birma a muso duro. Era la prima volta che Kym lo vedeva così. “Lei non è sulla lista, lo so, ed io sono troppo vecchio e malandato per essere utile. Kym, devi credermi: Triza vi sarà molto più utile di quanto pensi. So che c’è del posto libero, laggiù. Portala via.”

“Padre!” tentò la puledra. Lui, praticamente, la spinse via. “Non deve morire, non qui, non ora, non per me. Kym, in nome dell’amicizia tra me e tuo padre: salvala.”

“Posso salvarvi entr…”

Lui sembrò afflosciarsi sulla sua sedia. “La mia generazione è condannata: lasciaci morire dove abbiamo sempre sognato di morire, non in una tomba sotto terra. Non regalare a lei ed ai suoi coetanei false illusioni: l’orbita lunare decadrà, naturalmente. Con un po’ di fortuna, le forze di marea la faranno a pezzi prima che ci possa arrivare addosso; ma i suoi frammenti bombarderanno la superficie, e cancelleranno ogni residua speranza di rinascita della vita.”

“Professore…”

Lui scosse la testa. “Ancora una volta, i militari e le macchine sono la nostra speranza. Kyrin non è uno sciocco, saprà proteggervi, è nato per questo. Ma non cedete all’autoritarismo, non cedete alla violenza. Correte liberi. Ru’kna li Kym’la te. Torà vo-meele.”

“Sei li-itotomi,” rispose Kym.

“Padre…”

Lui si voltò verso gli schermi. “Shoka è tutto quello che mi rimane, adesso.”

 

La porta si aprì.

Butazi, aspettandoselo, uscì subito. Il corridoio si riempì presto delle figure disorientate degli altri Coreliani ricoverati.

Butazi sorrise. Batté uno zoccolo a terra, attirando la loro attenzione. “Amici, devo farvi una proposta.”

 

Separazione: -00 ore, 10 minuti, 39 secondi

 

“Non ho intenzione di disobbedire, signore,” disse Kym.

Lei e Triza stavano in piedi nel mezzo di una pianura. Il vento era una dolce carezza, il mondo intorno a loro era bellissimo.

“Non ho intenzione di morire,” ribadì Ghostmare. “Ma ho il diritto di vedere cosa succederà. Posso proteggermi e proteggere Triza, nel frattempo.”

Dal comunicatore non venne risposta.

“Sono stata io a portare tutti qui. È mio dovere mangiare l’erba cattiva fino all’ultimo boccone. Non starò sotto terra mentre la mia patria muore.”

“Allora fai attenzione,” disse Embe. “Ti prego.”

Lei sorrise. Non ebbe bisogno di rispondere, sapeva che lui sapeva. Erano vicini, lo sarebbero sempre stati.

 

L’onda gravitazionale, finalmente, arrivò, invisibile all’occhio ma devastante negli effetti.

I satelliti artificiali furono i primi a caderne vittima. Furono strappati via come polvere di ferro attratto da una potentissima calamita.

Corelia seguì un attimo dopo. Il suo manto atmosferico fu risucchiato, gli oceani furono scossi come l’acqua in una ciotola. Linee di frattura, accese di magma, apparvero nella crosta terrestre. I fiori di centinaia di vulcani si accesero a grappoli, uno dopo l’altro…

Corelia, e poi la sua luna, furono strappati via dall’orbita esattamente come previsto da Birma.

Cominciò così.